Il minimalismo nell'architettura

03.2022

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"Mi piacciono le cose semplici, non mi piace complicare le forme"

John Pawson è il più famoso professionista del minimalismo applicato all’architettura. Ha studiato a Eton e quindi all’Architectural Association School of Architecture di Londra. Nel 1981 ha lasciato l’Associazione Architetti di Londra per fondare il proprio studio. Pur essendosi approcciato all’architettura relativamente tardi, come Le Corbusier, Mies van der Rohe e Tadao Ando, grazie alla recente realizzazione della nuova sede del London Design Museum, Pawson ha confermato la sua posizione come uno dei più eminenti architetti oggi attivi in Gran Bretagna.

Sin dagli inizi della sua carriera Pawson pratica una forma di minimalismo che evita il disordine e l’ornamento, e suggerisce un senso di calma, calore e, spesso, spiritualità. Ne troviamo applicazione sin dai primi principali progetti, a partire dal flagship store di Calvin Klein a New York e dal monastero cistercense di Nový Dvůr, in Repubblica Ceca, fino ad arrivare alla sua casa a Notting Hill e alla realizzazione della “House of Stone”, che Pawson ha realizzato in collaborazione con Salvatori attraverso l’utilizzo di Lithoverde®, l’innovativa finitura in pietra naturale riciclata.

Salvatori ha incontrato Pawson per discutere di cosa significhi per lui minimalismo, della sua carriera e dell’importanza della sostenibilità in architettura.

Come sei arrivato all’architettura?

A scuola mi dissero che non potevo diventare un architetto perché non ero bravo in matematica. Mio padre voleva che lavorassi nell’azienda di sua proprietà che produceva tessuti per l’industria della moda, e per alcuni anni ho fatto quello, ma non ha funzionato. Sono scappato in Giappone dove ho incontrato Shiro Kuramata, che a un certo punto si era stufato di vedermi gironzolare nel suo studio e mi invitò prima di tutto ad approfondire le mie competenze andando a studiare.

Non avevo mai pensato di tornare a scuola così mi recai alla Architectural Association, anche se all’epoca avevo già 30 anni e la vita da studente mi stava stretta. In realtà, io volevo solamente andare avanti. Così me ne sono andato, iniziando a lavorare su piccoli progetti e a costruire le cose da zero. Non ho mai pensato di avere un ufficio o una carriera. All’inizio era un hobby, ma più mi impegnavo più diventavo ambizioso.

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Come si è sviluppato il tuo interesse per il minimalismo?

Il minimalismo ha sempre fatto parte della mia natura. Provo il massimo della felicità quando osservo i paesaggi senza alberi degli Yorkshire Moors, o l’architettura industriale del XIX secolo di Halifax, dove sono cresciuto. Inoltre i miei genitori avevano un’estrazione metodista – i loro genitori si recavano a pregare in cappelle semplici, spesso durante le funzioni non c’era nessun accompagnamento musicale. Per me era già tutto sullo sfondo, l’architettura è venuta molto dopo.

Non sono contrario ad usare il termine “minimalismo”, ma ritengo che si tratti di una descrizione decisamente troppo ampia. Mi piacciono le cose semplici, non mi piace complicare le forme.

C’è un progetto su cui hai lavorato che è particolarmente importante per te?

Sono tutti importanti, anche se mi ritrovo spesso a pensare alle scenografie che abbiamo fatto per il [celebrato coreografo] Wayne McGregor nel 2006, anche se ormai esistono solamente nelle fotografie e nelle registrazioni. Immagino inoltre che poche persone abbiano avuto l’opportunità di lavorare su un’intera città monastica, come abbiamo fatto in Repubblica Ceca.

Il Museo del Design è importante perché è un edificio che chiunque può visitare. È stato il primo edificio pubblico che ho fatto, e se devo essere sincero, non sono abituato ad avere così tante persone che possano esprimere idee contrastanti sul mio lavoro. Se un cliente ha delle osservazioni rispetto ad un progetto, si discute assieme per trovare un accordo, ma il museo viene visitato da un milione di persone all’anno e questo significa circa un milione di commenti al mio lavoro diversi tra di loro.

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Qual è stata l’idea alla base della House of Stone con Salvatori?

Volevo fare qualcosa che le persone potessero vivere fisicamente. Non posso rendere pubbliche le case private dei miei clienti, così ho deciso di progettare qualcosa in cui le persone possano entrare e avere una reazione viscerale. L’idea era di usare tutti gli elementi che sono parte del mio processo creativo: proporzione, superficie, giunzioni, il gioco di luci e ombre, ma in modo esagerato. Tutto il mio lavoro proviene da una serie di pensieri e idee profondamente radicate, li ho solo espressi, ed è stato lo stesso qui, anche se ha comportato tecniche ingegneristiche e di costruzione particolarmente difficili. Abbiamo aperto la linea di colmo e gli angoli del tetto, elementi su cui normalmente confluiscono lo stress e le tensioni strutturali dell’edificio in modo da dargli stabilità. Non è da considerarsi un modello per la costruzione di case in generale!

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Cosa significa per te lavorare con Lithoverde®?

È fantastico per me perché è allineato ad una responsabilità ambientale che gli architetti devono avere, usando gli scarti di pietra che di solito vengono gettati via, oltre ad essere esteticamente gratificante. Ha una fisicità reale – è una superficie sensuale, ti chiede di toccarla; sono stato inoltre attratto dallo schema di tessere ad incastro di dimensioni diverse. La sostenibilità di un edificio è uno dei temi più importanti per gli architetti di oggi, un tema che ha un enorme impatto sul modo in cui lavoro. Da quel punto di vista, un prodotto come Lithoverde® ti consente di non scendere a compromessi.

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